Beata Solitudo: lasciamo stare Seneca

I versi latini “O beata solitudo o sola beatitudo” hanno la caratteristica di essere l'uno l'anagramma dell'altro. Su internet, li si trova attribuiti ad autori classici (in particolare Seneca) o medievali (San Bernardo da Chiaravalle). In realtà, a livello stilistico, l'attribuzione a Seneca suona strana: l'anagramma sembra poco appropriato come espediente stilistico per un autore così austero. Infatti, verificando nel corpus delle opere di Seneca, questi versi non compaiono. Anche per le altre fonti antiche i tentativi di verifica non danno frutto. E' quindi necessario riconoscere che l'origine di questo motto così popolare è molto più recente. Un'indicazione credibile e documentata è fornita da una rivista francese pubblicata all'inzio del novecento (“L'intermediaire des chercheurs et curieux”) in una nota che può essere tradotta così:

O beata solitudo – Questo testo non è reperibile in San Geronimo, né in San Bernardo. Lo si trova invece in un poeta latino del XVI secolo, Corneille Muys (latinizzato Musius), nato a Delfi nel 1503, morto a Leida nel 1572. Questa informazione mi è stata trasmessa dal Sign. Levesque, erudito bibliotecario di Saint-Sulpice. In effetti, i versi si trovano in un volume di poesie intitolato “Solitudo, sive vita solitaria laudata, et alia poemata” [Solitudine, ovvero lode della vita solitaria, e altre poesie], Anversa 1566.

O beata solitudo
O sola beatitudo
Piis secessicolis!
Quam beati candidati
Qui ad te volant alati
Porro ab mundicolis!
O beata solitudine
o sola beatitudine
per chi ama il pio monachesimo!
Come sono beati gli eletti
che con le loro ali volano da te,
lontano dalle persone mondane!

E' possibile leggere online per intero l'opera del sacerdote olandese Corneille Muys.


In girum imus nocte

"In girum imus nocte et consumimur igni" è una frase palindroma latina: si legge identicamente da sinistra a destra e da destra a sinistra. Può essere tradotta "ci aggiriamo nella notte e siamo consumati da un fuoco". Non sono riuscito a trovare fonti attendibili sull'origine di questa frase. E' evidente che "girum" dovrebbe essere "gyrum", in latino antico. Sembra quindi probabile che la frase sia stata ideata nel medioevo, o in epoche anche più recenti. Cesar Cantù, nel terzo volume dalla "Historie Universelle" (1844) afferma che il palindromo si riferisce ai demoni, ma potrebbe riferirsi anche alle falene, che volano in cerchio attorno alle fiamme, fino a bruciarsi.

Emblemi d'amore a Torrechiara


La Camera d'Oro del Castello di Torrechiara presso Parma è famosa per gli affreschi eseguiti da un membro della famiglia Bembo (probabilmente Benedetto) verso la metà del Quattrocento. Il nome della camera è dovuto alle piastrelle di terracotta che rivestono la parte inferiore delle pareti: tali piastrelle erano infatti anticamente interamente rivestite in foglia d'oro. Il rivestimento d'oro non è più presente, ma la camera conserva molto del suo fascino. Essendo destinata alla funzione di camera da letto per Pier Maria Rossi e la sua amante Bianca Maria Pellegrini, la decorazione della camera celebra l'amore tra i due. In particolare, le piastrelle riportano quattro soggetti.

Il primo emblema è un Leone rampante, simbolo araldico del Rossi (che fu capitano di ventura al servizio dei Duchi di Milano).



Il secondo emblema è quello della famiglia Pellegrini. L'emblema rappresenta un castello, con il ponte levatoio alzato, in primo piano, nel fossato, nuotano delle anatre. In cima al castello è visibile un falco “pellegrino” sormontato da un sole raggiato. Ai due del castello, sono raffigurati due “bordoni”, i bastoni tipici dei pellegrini. Negli affreschi della camera, la stessa Bianca Maria è raffigurata come una pellegrina, e quindi con il bordone in mano.

Il terzo emblema rappresenta una lettera M, in stile gotico. La M è l'iniziale comune ai nomi dei due amanti Pier Maria e Bianca Maria. Alle tre aste della lettera è intrecciato il motto latino “Nunc et semper” (ora e per sempre).


Anche la quarta formella rappresenta un voto d'amore: vi sono raffigurati due cuori accostati circondati da tre corone. All'interno delle tre corone è inciso il motto “Digne et in eternum” (“meritatamente e in eterno”).



Beppe Grillo e Giangaleazzo Visconti

Nei giorni scorsi, i quotidiani hanno riportato queste affermazioni di Beppe Grillo: “Non ce l’ho con i giornalisti, per l’amore di Dio, io gli voglio bene ma un giorno faremo i conti, ma non li faremo con tutti … Faremo i conti con i Floris e i Ballarò … ma io non dimentico niente … Siamo buoni, siamo gandhiani ma gli faremo un c… così…”.

Trovo interessante che il nucleo di queste dichiarazioni ("io non dimentico") si trovi anche in un'impresa dei Visconti di Milano passata poi, come molte altre, agli Sforza.

L'impresa in questione riproduce l'immagine di un morso per cavalli, con il motto in tedesco "Ich Verges Nicht" ("io non dimentico nulla"). Si ritrovano innumerevoli varianti ortografiche di questo motto, per esempio "Ihc Verges Nihc" in quella qui illustrata. L'invenzione dell' impresa è attribuita a Giangaleazzo Visconti, Duca di Milano dal 1387 al 1402. Il morso è un simbolo tradizionalmente associato alla virtù della temperanza. Significa quindi, in questo contesto, che è necessario frenare i propri impulsi e attendere il momento opportuno per vendicarsi dei torti subiti (magari senza esagerare).