L'Oroscopo del Mondo secondo Firmico


Grazie alla traduzione in inglese di Thomas Taylor (Londra, 1831, disponibile su GoogleBooks) ho letto alcune interessanti pagine scritte da Giulio Firmico Materno. Firmico fu un importante astrologo vissuto all'epoca dell'imperatore Costantino (IV secolo dopo Cristo). Tra i suoi contributi c'è la presentazione di un “Oroscopo del Mondo” (Thema Mundi) che Firmico afferma di aver desunto da antiche fonti greche ed egiziane, in particolare gli autori Esculapio, Anubius, Petosiris e Nechepso (o Necepso).

I successivi astrologi cristiani interpretarono l'Oroscopo del Mondo come la posizione degli astri al momento della creazione. In effetti, Firmico rigetta tale interpretazione, polemizzando con il punto di vista cristiano: “Il mondo non ebbe origine in un giorno definito, né ci fu mai un momento in cui il mondo fu creato dalla volontà di un intelletto divino o dalla divina provvidenza; la fragilità umana non si è spinta fino al punto di concepire o tentare di spiegare l'origine del mondo, in particolare il fatto che la sua periodica distruzione, che si compie per via di una conflagrazione o di un diluvio, avvenga ogni 300.000 anni. … Quegli uomini divini, hanno saggiamente inventato questo oroscopo del mondo. Mi sembra utile spiegare la natura di questa divina composizione, in modo che il mirabile ragionamento alla base di questo schema congetturale possa essere illustrato secondo le regole dell'arte astrologica”.

Francesco Giuntini, nel suo monumentale Speculum Astrologiae (Firenze, 1581, sempre su GoogleBooks), descrive diverse versioni dell'oroscopo del mondo e nota che “quale sia la più vera di queste opinioni non è dato sapere con certezza, a parte il fatto che il mondo fu creato d'estate, al momento del sorgere del sole, come afferma San Tommaso.”
Giuntini riporta il diagramma descritto da Firmico, ma ritiene prudente ribadire esplicitamente la propria ortodossia: “La santa madre chiesa sostiene, e noi fermamente sosteniamo, che Dio creò il mondo dal nulla, ma Petosiris e Necepso, Re Egiziani, eminentissimi studiosi della disciplina astrologica, con ispirazione divina, tramandano che il mondo abbia avuto inizio in un giorno in cui le stelle avevano queste posizioni nel cielo, secondo lo schema seguente”.

L'Oroscopo del Mondo pone tutti i pianeti al quindicesimo grado (e quindi al centro) del loro domicilio diurno: la Luna, all'ascendente, in Cancro, il Sole nel Leone, Mercurio nella Vergine, Venere nella Bilancia, Marte nello Scorpione, Giove nel Sagittario, Saturno nel Capricorno (si noti che per un errore lo schema pubblicato da Giuntini non riporta il pianeta Giove). Siamo quindi all'inizio di agosto e il Sole sta per sorgere. Firmico produce un'elaborata analisi di questo schema, interpretando l'ordine con cui sono disposti i cinque pianeti da Saturno a Mercurio come rappresentativi di diverse “ere” che si succederanno all'interno di ciascuno dei periodi di 300.000 anni da lui ipotizzati: “Dato che la prima origine del mondo fu rude e priva di cultura, questi uomini divini [cioè gli astronomi egiziani] furono dell'opinione che questa era rustica e barbara fosse Saturnina e, similmente a questo pianeta, caratterizzata da ferocia barbara e inumana. Dopo Saturno, il potere passa a Giove, in modo che, abbandonando la squallida rusticità, e mettendo da parte la ferocia, la vita umana potesse essere coltivata attraverso la purificazione dei modi di fare. In terzo luogo, la Luna si congiunge con Marte, e così i mortali, essendo entrati nel giusto cammino della vita, e avendo soggiogato la mancanza di umanità ad una certa moderazione, grazie a questa congiunzione possono ora produrre gli ornamenti delle arti e dell'industria. Dopo Marte, è Venere a ricevere il maggior potere, in modo che le discipline umane possano gradualmente crescere, e la prudenza e la saggezza ornare l'umanità. Ma questi uomini divini pensarono che l'ultimo periodo dovesse essere sotto il dominio di Mercurio. Cosa può esserci di più sottile? L'umanità, dopo essersi purificata dalle azioni rozze e selvagge, avere inventato le arti e altre discipline disposte ordinatamene, rende ancora più acuto il suo potere inventivo. E dato che il nobile genio dell'uomo non può attenersi ad un unico stile di vita, la perniciosità del male cresce in varie istituzioni, e prevalgono modi poco chiari e i crimini di una vita perversa: così l'umanità in questo periodo crea le più enormi macchinazioni. Per questo i saggi hanno pensato che l'ultimo periodo debba essere assegnato a Mercurio: in modo che, a imitazione di questo pianeta, la razza umana faccia nascere invenzioni colme di ogni male.”

Manierismo e Forma Serpentinata




La pittura del tardo Rinascimento, spesso etichettata con il termine originariamente dispregiativo di "manierismo", è stata estremamente sofisticata nella rappresentazione della figura umana e del nudo. Una caratteristica frequente, che si trova già in Michelangelo, è la presenza di torsioni anatomiche e pose sinuose a cui gli storici dell'arte hanno attribuito il nome di “Forma Serpentinata”. Questa “Allegoria della Felicità” di Agnolo di Cosimo, meglio noto come "Bronzino", è un dipinto in cui la tendenza alla torsione è ancora limitata, ma il panneggio verde dell'avvenente Giustizia produce una perfetta spirale che sottolinea efficacemente le ondulazioni nel profilo di questo bel nudo classicissimo. Nel suo insieme, l'Allegoria della Semplicità è una sobria composizione rinascimentale, caratterizzata da un'evidente simmetria. 



Uno dei dipinti più noti di Bronzino è un'allegoria per certi versi simile nella complessità iconografica, in cui le figure centrali sono una coppia Venere e Cupido di straordinaria sensualità. In quest'opera la Forma Serpentinata fa bella mostra di sé e l'intera composizione si configura quasi come un vortice di corpi per molti versi disorientante. La Forma Serpentinata, a voler bene vedere, è proprio il trionfo dell'asimmetria: alle figure vengono imposte torsioni che le sottraggono al senso di ordine e stabilità tipico del Quattrocento e del primo Cinquecento per trasformarle in volumi duttili e dinamici, i cui atteggiamenti risultano ricchi non solo di vita pulsante, ma, in maestri come Bronzino, anche di eleganza ed equilibrio stilistico.


Un misterioso portale marmoreo



Al numero 15 di Via della Guastalla a Milano è presente questo bel portale di marmo. Secondo un articolo di Marta Isnenghi pubblicato sul Corriere della Sera nel 1999, il portale proverrebbe da una villa napoletana del '700. Le diverse parti che lo compongono (i due satiri, i due puttini che cavalcano animali mitologici, la coppia uomo e donna con le iscrizioni) potrebbero anche avere origini eterogenee. La coppia composta dall'uomo e dalla donna nudi ai due lati del portale è un elemento particolarmente interessante. Dallo stile, questi elementi potrebbero anche essere d'epoca rinascimentale. Di sicura derivazione classica sono invece le criptiche iscrizioni che sottostanno alle due figure. 

Alla donna è associata la frase “Aqua vivimus” (viviamo d'acqua). Questa può essere ricondotta ad un'antica etimologia,  ovviamente erronea ma molto suggestiva, della parola latina “aqua”. Nel 1770, Charles Alston scrive quanto segue nelle sue “Lezioni sulla materia medica” (“Lectures on the Materia Medica”): “Aqua, idros, secondo gli alchimisti e i filosofi antichi, è uno degli elementi. Dice Festo: Si chiama aqua perchè di essa viviamo (a qua vivimus); e si dice onda (unda) perché da essa derivano tutte le cose (unde sunt omnia), secondo Talete.”

John Mason Good, Olinthus Gregory e Newton Bosworth si esprimono in tono più sprezzante. Questi tre accademici sono gli autori di un'opera pubblicata nel 1813: “Pantologia, una nuova enciclopedia comprendente una serie completa di saggi, trattati e sistemi, ordinati alfabeticamente, con un dizionario generale sulle arti, le scienze e le parole, che presenta complessivamente una disamina distinta di genio, erudizione e industria umani”. Alla voce “Aqua” si legge: -L'origine di questa parola ha stranamente lasciato perplessi i lessicografi. “A qua vivimus” (della quale viviamo) è la ridicola derivazione proposta da Festo. “Aequa” (equa) quella proposta da Varro, in base alla superficie liscia dell'acqua. Lo Scaligero viaggia più lontano, ma senza migliori risultati, e deriva la parola dal greco "axa", equivalente al latino “aequa”, e altrettanto esplicativa. La radice può essere rinvenuta nella maggior parte dei linguaggi orientali. “Aq” nella lingua caldea implica un flusso o una marea. “Aga” o “agua”, in Ebraico, significa essere fragorosi, protestare o ruggire, comportarsi con veemenza; tutte idee applicabili alle onde del mare.-

Il Festo citato in questi due testi sembra essere Sesto Pompeo Festo, un grammatico del II secolo dopo Cristo, autore di un'opera etimologica (“De Verborum Significatu”).



All'uomo raffigurato sul lato destro del portale, è associato il motto “Ut vivas vigila” (per vivere, rimani sveglio), che plausibilmente deriva da una delle satire di Orazio, in cui un medico dà questo consiglio ad un paziente avaro improvvisamente colpito da letargia (“ut vivas igitur vigila”, Satire II,3,152). Come se avarizia e letargia fossero due aspetti di un'unica malattia psichica che conduce alla paralisi delle forze vitali: una paura della morte che determina l'incapacità di vivere.

Orazio, Satire, Libro II, Satira 3, versi 142-160.

Pauper Opimius argenti positi intus et auri,
qui Veientanum festis potare diebus
Campana solitus trulla vappamque profestis,
quondam lethargo grandi est oppressus, ut heres             
iam circum loculos et clavis laetus ovansque
curreret. hunc medicus multum celer atque fidelis
excitat hoc pacto: mensam poni iubet atque
effundi saccos nummorum, accedere pluris
ad numerandum: hominem sic erigit; addit et illud:             
'ni tua custodis, avidus iam haec auferet heres.'
'men vivo?' 'ut vivas igitur, vigila. hoc age.' 'quid vis?'
'deficient inopem venae te, ni cibus atque
ingens accedit stomacho fultura ruenti.
tu cessas? agedum sume hoc tisanarium oryzae.'        
'quanti emptae?' 'parvo.' 'quanti ergo?' 'octussibus.' 'eheu,
quid refert, morbo an furtis pereamque rapinis?'
quisnam igitur sanus? qui non stultus. quid avarus?
stultus et insanus.

Opimio era povero, anche se circondato da oro e argento nascosti in casa,
nei giorni di festa beveva vino di Veio
da un ramaiolo campano, feccia del vino più comune.
Un giorno fu colpito da un profondo letargo, e il suo erede
già correva tutto contento tra le chiavi
e i forzieri. Un medico molto perspicace e fedele
lo risveglia così: ordina di portare una tavola
e di versarci sopra sacchi di monete, e che molte persone
si avvicinassero a contarle. Così l'uomo si alza. Il medico gli dice:
“Se non badi alle cose tue, l'erede te le porta via.”
“Anche se sono ancora vivo?” “Se vuoi vivere, rimani sveglio, dammi retta.”
“Che devo fare?” “Ti manca il sangue, è necessario che il cibo
ti venga in soccorso con un valido sostegno.
Cosa aspetti? Prendi questo decotto di riso.”
“Quanto costa?” “Poco.” “Quanto, dunque?” “Otto assi.” “Povero me,
che differenza c'è tra morire di malattia e morire derubato dai ladri?”
Allora, chi è veramente sano? Chi non è stolto. E com'è un avaro?
Stolto e malato.

Il motto “ut vivas vigila” può anche ricordare alcuni passi del Nuovo Testamento, per esempio Apocalissi 3,1: “Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio.” (Scio opera tua quia nomen habes quod vivas et mortuus es. Esto vigilans et confirma cetera quae moritura erant, non enim invenio opera tua plena coram Deo meo).


Rimane il problema dell'interpretazione complessiva delle iscrizioni associate a questa coppia di  statue. La nudità delle due persone richiama Adamo ed Eva e suggerisce che i due possano essere interpretati come rappresentativi dell'intera umanità. Un'ipotesi potrebbe essere che i due motti esprimano i due atteggiamenti complementari dalla cui interazione dipende l'agire dell'uomo in modo conforme alla sua natura: la passività dell'elemento femminile acquatico, associato alla donna, e l'attività rappresentata dallo stato di attenzione vigile associato all'uomo.  Quello che è esplicito e chiaro è che i due motti sono entrambi collegati alla natura della vita, indicando due elementi indispensabili alla stessa: l'acqua e la vigilanza (o consapevolezza).

Il motto “ut vivas vigila” è citato in un libro del 1599 (“Variorum in Europa itinerum deliciae”), opera di Giulio Cesare Scaligero, edita da  Nathan Chytraeus. Questo “Scaligero” potrebbe essere lo stesso citato nella “Pantologia”.  Il motto compare sul sepolcro di Vito Pisanello, morto a Napoli nel 1528. L'iscrizione presenta una versione più estesa del motto: “Ut vivas vigila: hic exitus omnes. Longarum haec meta viarum” (Se vuoi vivere, rimani sveglio: così finiamo tutti. Questa la meta dei miei lunghi viaggi). Il monumento riporta anche una breve biografia del Pisanello: “nato da un'antica famiglia, prese il cognome dalla città di Pisa in Grecia [nella valle del fiume Alfeo]. Fu intimo di Re Federico, e suo consigliere; condivise con il re lavoro, viaggi e pericoli in tempi molto difficili. Successivamente, quando i Francesi invasero il regno, fu accolto da Ferdinando [di Spagna], Re cattolico, per la sua rara fedeltà nelle avversità. Tornato a Napoli, all'età di 73 anni, vi morì. Andrea Francesco e Muzio fecero costruire questo monumento a testimonianza dell'amore e della pietà per il meritevole antenato. Fu sepolto qui nel Dicembre del 1528."
Sembra quindi confermata l'origine napoletana del portale, e si può ipotizzare che lo stesso fosse collegato a qualche membro della famiglia Pisanello.


Il mistico gioco della palla di Cusano

“De Ludo Globi” (“Il Gioco della Palla”) è un dialogo scritto da Nicola da Cusa nel 1462 circa. Il Dialogo è composto di due libri. Nel primo, l'interlocutore di Nicola è Giovanni, Principe di Baviera, che all'epoca aveva 25 anni.

Nicola descrive un gioco allegorico, in cui una palla di forma irregolare viene lanciata su un campo da gioco circolare segnato da cerchi concentrici. L'obiettivo è arrivare il più vicino possibile al centro del campo da gioco. Il gioco si caratterizza come una ricchissima allegoria della vita e dell'universo, in cui Dio si colloca come obiettivo al centro del campo da gioco, così come si colloca come obiettivo, più o meno riconosciuto, della traiettoria di ogni esistenza umana.



Giovanni: Poiché ti vedo ritirarti dal gioco della palla e sederti, forse perché stanco, vorrei parlare con te di questo gioco, se ti fa piacere.
Nicola: Molto volentieri.
Giovanni: Tutti abbiamo ammirato questo gioco nuovo e divertente. Forse perché in esso si trova raffigurata qualche profonda meditazione, che vorremmo ci fosse spiegata.
Nicola: E' una domanda ben posta. Infatti tutte le scienze hanno i loro strumenti e i loro giochi. L'aritmetica ha la ritmimachia. La musica, il monocorde. E anche il gioco della dama o degli scacchi non sono privi di un mistero morale. Personalmente, credo che tutti i giochi validi contengano qualche insegnamento. E in verità, secondo me questo piacevole esercizio della palla ci comunica significati filosofici non da poco. 

Giovanni: Dici che la palla da gioco ha una superficie semi-sferica. Potrebbe avere una superficie più grande o la rotondità di una sfera completa?
Nicola: Non nego che la palla da gioco possa vere una superficie più grande o più piccola, o la superficie di una sfera completa, se parliamo della forma e della rotondità visibili, il che non è affatto  vero per la rotondità perfetta. Infatti la rotondità che non può essere più tonda non è mai visibile. Infatti la superficie di una sfera è equidistante dal centro in tutte le direzioni, estremità della rotondità, che termina in un punto indivisibile che rimane tuttavia invisibile ai nostri occhi. Infatti i nostri occhi possono vedere solo ciò che è divisibile e finito.
Giovanni: Quindi la rotondità sferica dell'universo, che reputo perfettissima, non sarà mai visibile.

Giovanni: Trovo molto piacevole che si possa confrontare la palla da gioco con il corpo dell'uomo e il suo movimento con l'anima. Un uomo costruisce una palla da gioco e ne causa il movimento, che le imprime con il proprio impeto. E il movimento è invisibile, indivisibile e presente in nessun luogo, proprio come la nostra anima. 

Nicola: Credo di aver spesso parlato e scritto di questi argomenti, forse meglio di quanto possa fare adesso, dato che le mie capacità vengono meno e la mia memoria risponde lentamente. Tuttavia, era mia intenzione illustrare questo gioco di nuova invenzione, che tutti comprendono e giocano allegramente a causa dell'imprevedibile traiettoria della palla. Ho fatto un segno per terra nel punto da cui noi lanciamo la palla; e in mezzo al terreno di gioco c'è il trono di un re, il cui regno è un regno di vita, racchiuso da un cerchio. E all'interno del cerchio più grande ho tracciato nove altri cerchi. Le regole del gioco richiedono che la palla si arresti in uno di questi cerchi, e una palla che arriva più vicina al centro fa più punti, secondo il numero indicato sul cerchio in cui la palla si arresta. E colui che arriva per primo a trentaquattro punti (corrispondenti agli anni della vita di Cristo) è il vincitore.

Boccaccio: La Papessa Giovanna


La leggenda della Papessa Giovanna è stata molto popolare per gran parte del medioevo. Nella Cronaca di Norimberga (1493) la papessa viene ancora presentata come un personaggio storico (con il nome di "Joannes Anglicus", Giovanni d'Inghilterra). Nel dettaglio riprodotto qui sotto, il passaggio relativo alla vita di Giovanna è stato cancellato, plausibilmente perché ormai ritenuto inattendibile. La papessa è ritratta con il nome di Giovanni VII:



Questa è la storia di Giovanna, come narrata da Giovanni Boccaccio nel suo "De Claris Mulieribus" (Delle Donne Illustri):


Di Giovanni Papa Inglese

Giovanni, comechè di nome paresse uomo, nondimeno di sesso fu femmina, della quale il non più udito ardire fece che divenne chiarissima a tutto il mondo e dai posteri fu conosciuta. Di costei, benché dicano alcuni Magonza essere stata sua patria, appena si sa quale fosse il suo nome, ancora che vi siano chi dica essere stato Giliberta. Questo si ritruova, per confermazion di alcuni, costei, donzella, aver amato di sorte un giovane scolare, che, posto da canto il rispetto e la paura femminile, si fuggi segretamente di casa del padre e in abito di giovanetto, cangiatosi il nome, lo seguì, appresso il quale, ch'era andato in Inghilterra a studiare, istimata da tutti un cherico. Studiò ne gli studi di Venere e delle lettere. Ma, morto il giovane, conoscendosi la donna aver buono ingegno, e piacendole molta la dolcezza della scienza, ritenendo l'abito da maschio,non si volle accostar più ad altri, ne darsi a conoscer per donna, anzi continuando negli studi, fece tanto profitto nell'arti liberali, e nelle sacre lettere, che fra tutti a quel tempo fu tenuta eccellentissima. Così maravigliosamente diventata dotta , e ornata di scienza, omai giunta agli anni maturi, d'Inghilterra se ne venne a Roma, e ivi, leggendo publicamente alquanti anni le tre scienze cioè grammatica, dialettica, e retorica, ebbe molti nobili uditori. Onde, oltre la scienza tenuta da tutti huomo pieno di singolare honestà, di buon costumi, e di santità, e per ciò conosciuto da molti, morendo Lion Quinto Pontefice massimo da' Reverendissimi Cardinali, di comun volere, fu eletta Papa, e chiamata Giovanni, alla quale se fusse stata huomo, farebbe toccato il nome di Giovanni ottavo. Nondimeno non ebbe vergogna di seder su la sedia del pescatore, trattare, e maneggiare tutti i sacri misteri concessi dalla religion Cristiana a niuna donna e alcuni anni creò Cardinali e, femmina, ministrò in terra il Vicariato di Cristo. Ma Iddio, avendo compassione della sua plebe, non sopportò così eccelso luogo essere occupato da una femmina, ne che il mondo restasse da così fatto errore ingannato, ne che le andasse prospero l'ardire di voler maneggiare il corpo suo: perché spinta dal diavolo, che la teneva coperta in così scellerato ardimento la instigò, che quella principale onestà, che privatamente avea per innanzi serbata, che allora salita in cosi alto pontificato le venisse voglia di saziar l'ardore della sfrenata libidine. Ne a lei, ch'avea saputo così lungamente simulare il sesso, mancò via d'esequir la sua lascivia. Perché trovato segretamente uno di chi si poteva fidare, lo fece congiugner seco:di che avenne,che per ciò restasse pregna, e partorisse. O scelleratezza indegna, o invincibil pazienzia di Dio; ultimamente, a costei, che lungamente avea saputo accecare gli occhi degli huomini, mancò l'ingegno di poter nasconder l'incestuoso parto. Imperocché esendo ella più vicina al termine, che non pensava,mentre voleva andare a celebrar i divini uffici alla chiesa di San Giovanni Laterano nella pubblica strada,tra il Coliseo e il Palazzo di Papa Clemente,senza chiamare altra comare partorì. Col quale inganno avendo cosi lungamente, eccetto l'innamorato , ingannato tutti gli altri huomini, per ciò da' Cardinali deposta dal papato, e scomunicata, infelice si partì con pianto. A manifestar la sporcizia della quale, per continuar la memoria del nome, fino al di d'oggi, i sommi Pontefici faccendo le sacre processioni col Clero, e col popolo, avendo in odio il luogo posto in mezzo la strada dove partorì, voltano per alcune altre contrade, strade piccìole e strette, per evitar d'andar per quella, e intrando da un'altra parte in quella strada, lasciandosi dopo le spalle quel luogo, forniscono le loro preghiere, e il principiato viaggio.